venerdì 24 agosto 2012

CALENDARIO NOMADE | UN APPUNTAMENTO PER STASERA E UN SALUTO


Cari Erranti,
ultima chiamata per l'incontro di questa sera: NarrantiErranti insieme al Collettivo HMCF per un instant writing su due parole a sorpresa.
Venite armati di penna!
Ore 19, Festa dell'Unità di Bologna, "Eventi Collaterali".

Per chi non potrà esserci:
vi salutiamo tutti ora, perché domattina partiremo per una piccola vacanza.
Ci rivediamo a settembre con nuove idee per settimane di scrittura e altre collaborazioni!

A presto,
NarrantiErranti



Ci vediamo a Bologna, alla Festa dell'Unità, venerdì 24 agosto alle 19.
A questo link troverete l'evento: https://www.facebook.com/events/474409549236863/

sabato 18 agosto 2012

NARRANTIERRANTI + COLLETTIVO HMCF | SCRITTURA LIVE ALLA FESTA DELL'UNITÀ DI BOLOGNA | 24 AGOSTO, ORE 19.


Cari Erranti,
vi ricordiamo l'ultimo appuntamento del calendario nomade, da segnare sul mese di agosto:
2 parole a sorpresa, 12 righe per collegarle attraverso una via narrativa, 1 ora di tempo per riuscirci.



Ci vediamo a Bologna, alla Festa dell'Unità, venerdì 24 agosto alle 19.
A questo link troverete l'evento: https://www.facebook.com/events/474409549236863/



NARRANTIERRANTI + ARTEUMANZE + MONTEPIANO | I VINCITORI

All'incontro del 16 agosto, è stato presentato anche l'ultimo numero della rivista Montepiano, con i 4 racconti selezionati dalle 2 settimane di collaborazione con il festival Arteumanze:
complimenti a Elettra Sammarco, Cristiano Cambi, Paolo Lazzaro Capanni, Chrisandburden.
Presto vi sarà spedita una copia della rivista all'indirizzo che avete indicato alla redazione.

A presto,
NarrantiErranti


















venerdì 17 agosto 2012

NARRANTIERRANTI AD ARTEUMANZE 2012 | CASTELNUOVO NE' MONTI


Si dice che le storie siano antiche quanto l'uomo e che forse i racconti siano scritti dentro di noi ancor prima che sui fogli di carta, proprio come le cellule, il colore dei capelli, il taglio degli occhi. E così, davanti a un fuoco vivace e scoppiettante, sostituito solo per praticità da un computer portatile, noi Erranti ci ritroviamo spesso a raccontare e a chiacchierare, a scambiarci opinioni e parole scritte come una carovana millenaria di autori nomadi. 

Ieri, a Castelnuovo Ne' Monti, seduti nei Giardini del Palazzo Ducale, abbiamo dato vita a un incontro intimo, dall'atmosfera un po' incantata, sospesa tra le parole digitali che appaiono luminose sul monitor e la sensazione epidermica di trovarsi davvero ad «Andâr in vègg» come si faceva una volta, quando ci si ritrovava nel tepore di una stalla a scambiarsi storie.

 Grazie a tutti gli Erranti che nonostante il periodo vacanziero sono intervenuti. In ordine sparso, sperando di non dimenticare nessuno: Normanna Albertini, Daniele Coriani Elisa Tosi, Matteo Tassi, Carla Baranzoni, Roberta Spedaletti, Simone Moreno, Dilva Attolini, Renato Borghi, Morena Silingardi.

Un grazie speciale al direttore responsabile della rivista Montepiano Francesco Genitoni e all'assessore alla cultura Francesca Correggi, che hanno reso possibile l'incontro e hanno contribuito alla serata con interventi, letture, domande, curiosità, aiutandoci a creare un clima informale e partecipativo, che crediamo abbia rappresentato il valore aggiunto dell'evento.

Grazie ancora a tutti voi,
NarrantiErranti


Foto:
Lorena Taglini, Normanna Albertini.

mercoledì 15 agosto 2012

BUON FERRAGOSTO E APPUNTAMENTO DI DOMANI

Cari Erranti,
vi auguriamo buon Ferragosto.
Per chi ci sarà, ci vedremo domani, 16 agosto a Castelnuovo ne' Monti (Reggio Emilia).


Vi aspettiamo,
NarrantiErranti

lunedì 13 agosto 2012

ERRARE PER LA VIA DEGLI DEI | Capitolo settimo, dove s’incontra l’uomo tricheco e arriva il momento di fare dei conti


La voglia è di buttarsi giù per la collina, correndo, ruzzolando, urlando come pellirossa, rotolando come rotoballe, gettando gli zaini dove capita e lasciando libere le gambe e i piedi di mulinare e annaspare e inciamparsi per i campi senza ragione. Perché Firenze è proprio lì, a due passi, a un passo, sembra di poterla toccare, sembra di poter sbriciolare in testa ai turisti mangiando un biscotto, sembra un sacco di cose ma, purtroppo, sembra soltanto.

La verità è che ci sono molti chilometri ancora e un ultimo monte da assaltare, solo per arrivare a Fiesole. E poi, ancora tanta, tanta strada. Insieme ai nostri quasi amici, arriviamo fino a un boschetto indicato sia dal nostro libro, sia dalle loro cartine come Vetta Le Croci. I nostri amici decidono che è un buon posto per pranzare, noi preferiamo proseguire. Secondo le informazioni che mettiamo insieme dovrebbero esserci non troppo distanti un laghetto e forse un bar o qualcosa del genere. Cominciamo a scendere sino a incrociare di nuovo una strada statale, al di là della quale si trova in effetti il laghetto che speravamo di incontrare. Peccato sia recintato. Non resta che il bar.

Firenze: 10 chilometri. Così indica il cartello blu, poco distante dal bar ristorante. Viene quasi da piangere, per un misto di esaltazione e frustrazione. Se proseguissimo sulla statale, sotto il sole che trasforma l’asfalto in un fiume di lava e il traffico che sostituisce l’ossigeno con piombo e anidride carbonica, saremmo quasi alla meta. Prendiamo in considerazione l’ipotesi, la soppesiamo tra una sorsata di chinotto e un morso al panino con pecorino e finocchiona, ma no, decidiamo che non è la nostra via. C’è un ultimo monte che ci sta aspettando e noi non lo tradiremo.

Mentre stiamo per ripartire arrivano anche i nostri colleghi di Cammino, informandoci che  mentre pranzavano a Vetta le Croci, sono passati Katia e il marito. In fondo, in un modo o nell’altro, abbiamo mantenuto il nostro proposito: raggiungere e superare Katia. Mentre i piedi sono occupati a percorrere sentieri, anche i nostri cervelli vagano seguendo strade immateriali. Per me è difficile fare in modo che le due vie coincidano: quasi mai il mio cervello è completamente presente mentre mi affatico su un sentiero. È troppo occupato a rimuginare il passato, a elaborare concetti, a formulare tesi e a sfilacciarle in antitesi. E per quanto l’obiettivo di superare Katia fosse superfluo, perlomeno mi aiutava a tenere il cervello inchiodato lì, sul Cammino, dentro le ginocchia, nei tendini e nei muscoli e nelle ossa e nelle piante dei piedi, dentro le scarpe, fin sotto alle vesciche. E adesso che anche questa meta è stata raggiunta, la tensione cala un altro po’, il cervello si rilassa e si sente autorizzato a vagare di nuovo per i fatti suoi, pensando al futuro prossimo, a Firenze, al rientro in treno, alla doccia e al letto che mi stanno attendendo. È normale, ma anche pericoloso: c’è ancora troppa strada per sentirsi arrivati.

Ripartiamo sotto il sole incandescente delle tre, verso Poggio Pratone: 200 metri di dislivello per una salita ripida, lunga e subdola. È un continuo saliscendi e ogni volta che pensi di essere arrivato in cima, dietro gli alberi c’è sempre un altro strappo che ti aspetta. Io e Fillo arriviamo per primi, poco dopo spuntano Piccio e Izzo, seguiti dai nostri amici. Ora il problema è decidere come raggiungere Firenze. Wu Ming 2 suggerisce diverse ipotesi, così come la guida dei nostri amici. La più breve consiste nell’arrivare sino a Fiesole e da lì procedere per la strada vecchia fino a Firenze (circa altri 8 chilometri) calpestando però un sacco di asfalto. Ed è qui che, come nel peggiore dei B-Movie, scritto probabilmente da quello stesso sceneggiatore americano che sembra voler infilare il suo zampino sin dall’inizio della nostra avventura, accade quello che verrebbe definito “colpo di scena”. Dal nulla sbuca un anziano vestito di bianco con un sorriso da tricheco. “Faccio questa strada tutti i giorni per abbassare la glicemia – ci dice – da qui a Fiesole se si scende di buon passo si arriva in un’ora, un’ora e mezza al massimo. Poi per Firenze la strada vecchia non è così male”. Mentre i nostri amici riflettono sul da farsi, noi decidiamo di affidarci allo sceneggiatore del nostro destino e cominciamo a scendere, seguiti e supervisionati dall’uomo tricheco che, ben presto si affianca a noi accompagnandoci lungo la strada. Tutto sembra procedere, ma la situazione si complica.

Izzo, che aveva già dato qualche segno di cedimento, si siede a terra. Non ce la fa più, dice di essersi sentito svenire. Cerchiamo di aiutarlo con acqua fresca e sali minerali ma nel frattempo gli si addormenta il labbro superiore e non riesce più ad articolare le parole in modo chiaro. Tutti sorridiamo perché gli effetti sono buffi, ma in realtà siamo piuttosto preoccupati. Di strada ce n’è parecchia e non è la prima volta, durante il viaggio, che Izzo vive momenti come questo. È il meno allenato di tutti ed è già un eroe ad avercela fatta fino a qui. Nel frattempo ci raggiungono anche i nostri amici, con una provvidenziale barretta energetica. Ringrazio l’anziano, invitandolo a proseguire: noi ce la caveremo. Ma il signore non molla, insistendo per tutto il tempo perché Izzo si tiri su e continui a camminare: è il solo modo per riprendersi, dice, ma in realtà è palese che abbia fretta di arrivare a Fiesole, dove abita. “Non si preoccupi – insisto – se ha fretta vada pure, noi preferiamo aspettare che Izzo si riprenda”. La situazione si fa imbarazzante: l’anziano si ostina a esortare Izzo ad alzarsi e a riprendere a camminare.

Infine, Izzo ce la fa. Il labbro è ok, il suo colore torna passabile e si rimette in piedi. Salutiamo i nostri amici: Elena si fermerà a Fiesole, a casa dei suoi genitori, mentre gli altri due vogliono ancora pensare al da farsi. Abbassando il ritmo della camminata, arriviamo sino a Fiesole, scortati dal misterioso uomo tricheco che non vuole saperne di mollarci. Infine, infilandoci in un bar, riusciamo a staccarci da lui, ringraziandolo e salutandolo sbrigativamente. Davanti a un the freddo Izzo sembra riacquistare un po’ di forze.

È il momento di prendere una decisione difficile: riusciremo ad arrivare a Firenze a piedi? E a mettere qualcosa sotto i denti prima di prendere l’ultimo treno per Modena? Controlliamo gli orari sul telefono e facciamo un rapido calcolo. È praticamente impossibile, se non correndo come pazzi, e non è certo il caso. Non ci resta che optare per la soluzione di cui nessuno voleva parlare: Piccio materializza 4 biglietti per l’autobus ed eccoci, con i musi lunghi, a sbirciare dai finestrini la strada che avremmo dovuto percorrere a piedi. In fondo, ci giustifichiamo, sarebbero stati otto inutili chilometri d’asfalto e macchine.





Il resto si racconta in breve: piombiamo – sporchi, sudati e puzzolenti – in un ristorante per affogare i nostri sensi di colpa nei succhi di una grossa Fiorentina al sangue. E poi via, veloci verso la stazione, per l’ultimo treno disponibile.  Mentre il Frecciargento – come un lombrico supersonico – s’infila in 38 minuti nel ventre dei monti che i nostri piedi hanno accarezzato in 5 giorni, mi chiedo quale sarebbe la morale di questa avventura, secondo lo sceneggiatore americano – perché di certo non avrebbe resistito a infilarne una, probabilmente mettendola in bocca al più saggio tra i protagonisti o, meglio ancora, inserendola in un dialogo apparentemente casuale tra due personaggi secondari.

Avrebbe forse a che fare con il concetto della velocità, oppure con la differenza tra viaggiare con il corpo e viaggiare sul web. Rimugino sul bus che abbiamo preso, ma non mi sento di aver tradito il Cammino: era senza dubbio la cosa più ragionevole da fare. Ripenso a questo treno e non mi sento un miscredente perché apprezzo il fatto che grazie a lui sarò presto a casa. Ripenso all’idea di compiere qualcosa insieme, di conoscersi per davvero, di affrontare un’impresa in gruppo e portarla a termine, e trovo più verità in tutto questo. “È stato bello raga” dice Fillo. E poi il treno arriva a destinazione e non c’è più molto da pensare.



Musica epica ma malinconica. Titoli di coda.

sabato 11 agosto 2012

ERRARE PER LA VIA DEGLI DEI | Capitolo sesto, dove si prendono decisioni difficili


Mi sveglio riposato e pieno di energia. Questa sarà l’ultima tappa e fin dalla sera precedente si attorciglia nelle mie budella un misto di entusiasmo e pre-nostalgia per la fine del viaggio. Sospetto che sia così un po’ per tutti, anche se nessuno lo ammette apertamente. Colazione con le ultime briciole di biscotti rimaste, lavaggio denti, riempimento bottiglie e siamo già in partenza. Anche questa volta ci incamminiamo mentre i nostri amici, accampati poco distanti da noi, stanno ancora finendo di prepararsi.

La tappa inizia con una discesa morbida fino alla provinciale. C’è persino un capriolo, in pieno giorno, che sembra volerci dare la sua benedizione. Attraversiamo la strada asfaltata per riprendere il sentiero, passando sotto il ponte ferroviario, così come scritto sul nostro libro. Al bivio successivo però, Wu Ming 2 indica una direzione, mentre i segni Cai invitano a procedere sul sentiero opposto. Non abbiamo con noi altre cartine, altre guide, altri riferimenti oltre alle scarne parole dispensate con il contagocce nella pagine ormai consumate dalla polvere e dal sudore del nostro amato e odiato “La via degli dei”. Abbiamo scelto così, perché il Cammino preservasse quella parte di scoperta e quel senso di avventura, che diversamente non avrebbe mai avuto. E abbiamo già dimostrato a noi stessi di saper accettare l’errore, il tempo perso, la fatica sprecata, come inevitabile tributo da pagare per la nostra scelta. E anche se oggi è il giorno dei giorni, la tappa della verità, scegliamo con una leggerezza che è quasi noncuranza: questa volta seguiremo il Cai.
Il sentiero comincia a salire, le poche abitazioni che incontriamo si fanno sempre più rade. Qualcuno ci offre da bere, qualcun altro ci conferma vagamente che da qui è possibile arrivare al Monte Senario. Nella prima vera sosta mi accorgo di aver lasciato due bottiglie da mezzo litro al Castello di Trebbio. Non ci voleva, ma in fondo ho altra acqua e probabilmente troveremo fontane lungo il sentiero. Ci inerpichiamo sempre più su, fino a incontrare una casa isolata, dove un curioso signore alleva pappagalli in giardino. Ci fermiamo un momento a dare un'occhiata e ripartiamo.

Dopo altri seicento metri di salita incrociamo un cartello che ci lascia perplessi: indica il sentiero Bologna-Firenze, ma la direzione della freccia è in senso contrario. Non le diamo troppo peso: la freccia a pennarello potrebbe essere stata aggiunta da qualcuno per divertimento, oppure potrebbe servire per i viaggiatori partiti da Firenze.

Ma dopo forse un paio di chilometri, i dubbi cominciano ad assalirci. Il sentiero non sembra procedere nel modo giusto, non ci sono più segni del Cai le ultime speranze di poter chiedere a qualcuno si artigliano a un gruppetto di case in cima a un monticello lontano.
Cominciamo a chiederci se sia il caso di tornare indietro, perlomeno sino alla casa dei pappagalli, dove a Fillo sembra di aver scorto una deviazione del sentiero. Scegliamo di tentare prima con le case aggrappate al monticello. Il ginocchio di Fillo è ormai fuori uso, Izzo e Piccio sono pieni di vesciche. Andrò io, lasciando lo zaino ai miei compagni. Se scoprirò che la strada è corretta, chiamerò loro al telefono e mi porteranno lo zaino. In caso contrario scenderò nuovamente.

Senza zaino sembra di volare, nonostante la salita e il suolo sassoso. Cerco di fare più in fretta che posso. Arrivo a una biforcazione. A destra le case, a sinistra un sentiero Cai segnato, ma la destinazione indicata non ha nessun riscontro sul nostro libro. Prima le case, mi dico.
Suono, chiamo, busso, grido. Nessuno. Entro nei diversi cortili, sbircio dalle finestre. Nessuno di nessuno. Sconsolato scendo dai ragazzi. “Nessuno a cui chiedere, ma a sinistra c’è un sentiero e la direzione potrebbe non essere sbagliata, a occhio”. Dobbiamo decidere in fretta, il tempo passa: tornare sino alla casa dei pappagalli o tentare il sentiero sconociuto?

Scusate, voi cosa avreste fatto al nostro posto?


ERRARE PER LA VIA DEGLI DEI | Capitolo 5, dove si assalta un castello e non si riconosce Katia


Mi sveglio prima dell’alba, con lo stomaco e l’esofago che navigano nell’acido. Mi vuoto giù per la gola un litro di acqua, ma non serve a molto. Sapevo che la salsiccia e l’alcol della cena avrebbero lasciato il segno. Mi alzo e constato che, perlomeno, camminare diverse ore in meno del solito e dormire su un materasso hanno fatto bene a schiena e gambe. Inizio a sistemare lo zaino mentre si svegliano tutti. Facciamo colazione e nel frattempo apre anche la Jolanda. “Di che stanza sono?” mi chiede il proprietario mentre gli riconsegno le chiavi della Roulotte-Rulot. “Siamo i ragazzi di ieri, quelli del Cammino, quelli della Roulotte” cerco di spiegare. In risposta ottengo un mezzo sorriso con molti sottintesi: evidentemente la grappa e la serata di ieri non hanno avuto conseguenze solo su di me.

Partiamo col fresco, sapendo che ci toccherà la tappa più lunga sinora: 27 chilometri di monti per arrivare sino a San Piero a Sieve e da lì salire ancora su fino al Castello di Trebbio, per accamparci per la notte. Salutiamo i nostri amici, che stanno finendo la colazione. L’idea è di evitare la prima cima – il Monte Gazzaro – per preservare le forze fino alla fine della giornata. Ma quando ci troviamo nei pressi non riusciamo a tirarci indietro. In fondo siamo qui per camminare e barattare una passeggiata tra i boschi per qualche chilometro di asfalto sarebbe un po’ tradire il Cammino e noi stessi. Così ci infiliamo sul sentiero che s’insinua dentro agli alberi, fin al cuore segreto del bosco. L’umidità portata dalla pioggia del giorno precedente ammanta i tronchi e i rami di una nebbia surreale, e nonostante il mal di stomaco riesco a godermi una camminata semplicemente meravigliosa. 

L’obiettivo è arrivare a Sant’Agata per pranzo, anche se sappiamo che i chilometri da macinare sono parecchi. Probabilmente la tappa striminzita di ieri ha preservato le forze di tutti: nonostante gli acciacchi, le vesciche e l’acido che mi bolle ancora dentro, procediamo rapidi e con poche soste. 

Per l’una siamo a Sant’Agata e quasi non riusciamo a crederci. Bellissima - immagino che le guide la definirebbero "caratteristica" - con le sue casette in sasso, la Pieve, i vialetti fioriti; ma probabilmente progettata da una lucertola o da un urbanista rettiliano a sangue freddo: in tutto il paese non esiste un centimetro quadrato di ombra. Immagino che sia un problema anche per gli abitanti del luogo, tant'è che solo un colpo di sole può spiegarmi come a un passante, vedendoci, sia venuto in mente di chiedere a Izzo se desiderasse un vinile di Elvis. Eppure lo ha fatto. Sul serio. Un vinile. Di Elvis. Del resto, tra le migliaia di leggende che si raccontano su di lui, mi pare ci sia anche chi sostiene che Elvis Presley fosse un rettiliano. Il cerchio si chiuderebbe.

In una piazza riusciamo a individuare 4 panchine vagamente riparate. Su una di esse, una coppia di professionisti del trekking: abbigliamento tecnico, bastoncini e gambe magre e nervose.  Scambiamo un paio di chiacchiere di cortesia: anche loro stanno percorrendo al Via degli Dei, ma sono partiti da Sasso Marconi. Poco dopo se ne vanno, lasciandoci il lusso di una panchina a testa su cui pranzare e appisolarci un poco, con il cappello calato sugli occhi.

Veniamo svegliati garbatamente da un ragazzo in divisa verde che si sta occupando della raccolta differenziata. “Sono arrivati in paese dei ragazzi che vi cercano” ci dice proprio mentre si fanno vivi Elena e i suoi due compagni di viaggio. Anche loro hanno scelto Sant’Agata come sosta per il pranzo, ma i nostri cammini continuano a incrociarsi senza mai sovrapporsi del tutto. Sappiamo per istinto quali informazioni condividere e quali tenere riservate, quali domande fare e quali tacere, mantenendo le distanze in un equilibrio complesso come fanno i gatti nel mio quartiere.  

Di lì a poco ripartiamo, soli, sfidando il caldo torrido del primo pomeriggio. Dopo diversi chilometri, molti dei quali d’asfalto, arriviamo sino a San Piero a Sieve, passando per una chiesetta che risale al 1300 (inizialmente, leggendo la guida, avevo frainteso: avevo capito che risalisse a 1300 metri di altitudine, e mi era venuto un mancamento) e una riserva di caccia con un nome che non dimenticheremo facilmente: Schifanoia
Viene facile il parallelismo con il "Che vita schifosa" del vecchio Fillo.


Rispetto ai paesini incontrati sinora, San Piero a Sieve ci sembra una metropoli, con addirittura un locale dove fare l’aperitivo. Prima di risalire sino al Castello di Trebbio (ci aspetta una salita che non perdona) ci concediamo una birra. Poco dopo appaiono anche i nostri amici. Questa volta risaliamo insieme, è inevitabile. Ci raccontano di aver incrociato la stessa coppia che avevamo visto a Sant’Agata e mentre proviamo a rimettere insieme i pezzi, una certezza comincia a insinuarsi nelle nostre menti: quella sulla panchina era Katia! Ma è ovvio! Come abbiamo fatto a non pensarci? Katia, oggi ti ho persino parlato ma non avevo capito fossi tu. Oramai ti abbiamo raggiunta!

Maledico più volte i tre chili di tenda che mi sto portando dietro, che non ho ancora usato e che, visto il tempo, di certo non userò nemmeno questa sera. Arrivati in cima Fillo individua un prato che fa al caso nostro, proprio vicino a una vecchia fontana con una grande vasca.
Ceniamo (Tonno + Mais + Salamino per me. Cosa te ne pare Gordon Ramsay?), riusciamo più o meno a lavarci e a rattoppare i piedi con i cerotti anti-vesciche. Ci sdraiamo a muso in su sotto un cielo che sembra incredibilmente vicino.
Siamo ai piedi di un castello che domina tutta la valle, la luna rischiara i profili soffici dei colli toscani punteggiati qui e là da poche, rade luci che non inquinano la notte. Vediamo un mucchio di stelle cadenti e mentre ognuno di noi desidera in silenzio, dal sacco a pelo di Fillo sentiamo pronunciare: “Desidero di essere un Faraone! Così domani mi sveglio e tutti mi portano lo zaino, il sacco a pelo e tutto quanto!”  Nel frattempo ho trovato finalmente una funzione alla tenda: è un ottimo cuscino, né troppo duro né troppo morbido. Peccato solo per il peso.



venerdì 10 agosto 2012

ERRARE PER LA VIA DEGLI DEI | Capitolo 4, dove per poco non si incontra Katia e si dorme in Rulot


La terza tappa è indicata come la più breve sul nostro libro. Solo 17 chilometri contro gli oltre 20 delle prime due e i quasi 30 delle prossime. Noi, però, siamo in ritardo di circa un’ora di cammino, perché ci siamo fermati alle Croci e non a Madonna dei Fornelli. Quindi decidiamo di partire presto per cercare di recuperare. Ringraziata e salutata ancora la signora, ci incamminiamo rifiutando un caffè che davvero non ci sembra il caso di accettare. Siamo già in direzione della Toscana: questa tappa valica ufficialmente il confine, arrivando sino al mitico Passo della Futa.

Percorriamo col fresco un sentiero sassoso che attraversa un parco eolico – così viene definito – senza però alcuna pala eolica. Sul libro di Wu Ming 2 c’è parecchio per farsi una cultura su questo impianto (ma le pale c’erano ancora, al momento della pubblicazione del libro). 

Finito il sentiero ci aspetta una strada asfaltata che digrada sino a Madonna dei Fornelli. Da qui inizia realmente la tappa numero 3. È ancora molto presto, non c’è ancora caldissimo e ci sentiamo tutti piuttosto bene, a parte le vesciche che hanno già cominciato a mietere qualche vittima, e il ginocchio di Fillo (operato due volte) che comincia a dare i primi segni di allarme. Affrontiamo la salita verso il Monte dei Cucchi con una spinta insolita.
Da qui in poi rimaniamo in quota con saliscendi tollerabili, e ci capita persino di concederci un riposino, svegliati dalle vacche al pascolo, distanti da noi solo poche decine di metri.

In questa tappa - sicuramente la più bella sinora - si calpestano alcuni metri della cosiddetta strada romana. Cosiddetta perché l’attribuzione è complessa e incerta come solo in Italia può accadere: una di quelle faccende che ha visto l’entusiasmo e la passione genuina di due archeologi dilettanti scontrarsi contro il mondo Accademico.

Poi arriva il momento delle Banditacce, l’ultima vera salita della giornata, di certo la più lunga e difficile. Riusciamo ad arrivare in cima, ognuno con i suoi tempi. Improvvisiamo un pranzo e un sonnellino e verso le tre siamo di nuovo pronti per rimetterci in marcia. Proprio mentre ci prepariamo, veniamo sorpassati da due ragazzi e una ragazza, che avevamo intravisto accampati prima dell’ultima salita. Ci salutiamo, come è giusto fare tra chi cammina nei boschi. Nessuno lo dice, ma tutti immaginiamo di aver finalmente individuato Katia.

Da qui in poi si scende seguendo Traversa (che è già in Toscana), a pochi minuti di cammino dal passo della Futa. Arriviamo in paese alle cinque e non possiamo crederci. Le cinque? Ma come? Abbiamo sbagliato qualcosa? Come abbiamo fatto a fare così presto?

Perplessi cerchiamo l’albergo Jolanda, che Wu Ming 2 indica per la grande disponibilità verso i camminatori. Comincia a piovere. Una pioggia rinfrescante ma fastidiosa per chi deve dormire all’aperto. Ci viene in mente di chiedere all’albergatore una stanza, così forse potremo usare questa tappa come un momento di relax: lavarsi come si deve, usare un bagno decente, riposarsi bene prima del giorno seguente. Purtroppo è al completo, e così tutto il paese nel periodo di ferragosto. Ma non appena capisce che stiamo facendo la Via degli Dei ci consegna una chiave, senza dire molto. Sulla targhetta di plastica c’è scritto Rulot, proprio così, come si legge. “È sporca e ogni tanto ci tengo il cane” ci dice “ma è pur sempre un riparo dalla pioggia e dormite sicuri, perché è qui dietro nel mio giardino.”

Entriamo nella Rulot. È davvero in pessime condizioni  ma non è il caso di fare gli schizzinosi. Facciamo un gomitolo dei lenzuoli pieni di peli e li infiliamo in uno scaffale. Sui due materassi potremo mettere i nostri sacchi a pelo e dormire sul morbido e al riparo dalla pioggia. C’è posto solo per due di noi, agli altri toccherà la tenda, che abbiamo il permesso di montare proprio accanto. Stanotte decideremo il da farsi.

Ovviamente è il caso di cenare da Jolanda, e magari di scolare prima una birra per togliersi la sete e godersi finalmente una mezzoretta di riposo per noi e per i nostri muscoli sfiancati. La verità è che ci sentiamo un po' in colpa, sappiamo che la prossima tappa sarà lunga quasi 30 chilometri e una parte di noi vorrebbe continuare a camminare per avvantaggiarsi. Ma dopo l’offerta della Rulot, nessuno ha davvero più voglia di mettersi in cammino.

“Ma tu scrivi, mi ricordo quel tuo racconto su Dio dentro a un ovetto Kinder” mi dice Katia.
Lei e i suoi due amici hanno fatto un altro percorso (probabilmente hanno sbagliato strada, come del resto è già capitato più volte anche a noi) e sono arrivati in paese solo ora. Anche loro devono aver letto di Jolanda sul libro di Wu Ming 2. Annuisco a metà tra l’imbarazzato e lo stupito e le chiedo se per caso si chiama Katia. Scopriamo che in realtà si chiama Elena e che lei e i suoi amici stanno facendo il nostro stesso cammino. Raccontiamo la faccenda della croce, del quaderno di vetta, e anche loro dicono di aver notato il nome Katia. Il mistero si infittisce. Chissà chi è? Chissà chi sei, Katia!

Si siedono accanto al nostro tavolo e si crea una strana atmosfera da amici-non-amici. In parte chiacchieriamo, in parte vogliamo conservare la nostra indipendenza. Ceniamo praticamente insieme, ma senza mai unire davvero i tavoli. Mi viene in mente la frase “convergenze parallele” e penso che in fondo non sia poi così sbagliato: certo, accogliere e incontrare e condividere sono parti fondamentali di un Cammino. Ma ognuno ha le sue motivazioni, i suoi modi. Davanti al quarto bicchiere di vino rosso penso che gran parte del Cammino stia su questo confine: da una parte la disposizione all’incontro e al coinvolgimento, dall'altra la capacità di rimanere fedeli al proprio passo.

La serata finisce con l’Oste che beve diverse grappe insieme a noi perdendosi in aneddoti alcolici su tedeschi ubriachi, camminatori esausti, sconosciuti che ha aiutato e sconosciuti che lo hanno aiutato. Siamo un po’ annebbiati quando torniamo alla Rulot. Forse i segni  biancorossi del Cai ci avrebbero aiutato a ritrovarla più in fretta. E probabilmente camminiamo un po' di traverso, arricchendo di significati il toponimo di questo paesino. Izzo e Piccio scelgono la tenda: non piove ormai più e forse il pericolo di prendersi pidocchi o altre malattie è più forte dentro che fuori. Io e Fillo gettiamo i sacchi a pelo sui due materassi e per oggi la giornata finisce qui.


ERRARE PER LA VIA DEGLI DEI | Capitolo 3, dove infine i miracoli accadono


Menù della colazione: latte al cioccolato in brick e saccottini stritolati dallo zaino (variante per i più golosi: merendina kinder ai 5 cereali). Non è una ricetta che troverete su Real Time, ma ci dà sufficiente energia per rimetterci in cammino. Andrebbe precisato che Fillo non gradisce i dolci e fa colazione con il tonno in scatola, ma questa è un’altra storia.
Il sentiero, in effetti, finisce quasi subito. La luce del mattino ci svela che l’Osteria ha un rubinetto esterno e che lì accanto c’è addirittura una fontanella pubblica. Felici come bambini davanti a un giocattolo nuovo, ne approfittiamo per fare il pieno. Ma tutto ha una doppia faccia in questo cammino, e persino l’aiuto dell’acqua può non essere così trasparente come sembra: mentre saliamo sul monte Adone, ogni litro in più nei nostri zaini è una maledizione divina per le nostre schiene e per le nostre zampe.

Fa molto, molto caldo, e la salita è lunga, ripida e non molto ombreggiata. Ci tocca fermarci per diverse volte prima di arrivare sulla cima, ma infine eccoci qui. Apriamo il contenitore metallico saldato alla croce per firmare il quaderno di vetta. Facciamo una scoperta che ci lascia perplessi: a quanto pare non siamo gli unici pazzi che stanno compiendo questo cammino in agosto. Proprio stamattina, proprio qualche ora prima di noi, sono passate altre persone tra cui si distingue con certezza il nome di una certa Katia. Katia, sappi che in un modo o nell’altro riusciremo a raggiungerti!

L’obiettivo sarebbe pranzare a Monzuno, che il nostro libro indica circa a metà della tappa, ma dopo diversi chilometri di sali e scendi siamo ancora solo a Brento. Siamo stanchi e affamati e decidiamo di pranzare lì. Riusciamo persino a utilizzare un vero bagno, cosa che ci riempie di gioia.
Il pomeriggio è un lento, sfibrante, drammatico trascinarsi verso Monzuno, attraverso pochi sentieri e molti, troppi, infiniti chilometri di asfalto incandescente. Dopo una curva, c’è sempre un’altra curva, e Monzuno non si vede mai. Mai.
Quando finalmente raggiungiamo le prime case, le mie gambe non ascoltano più il cervello già da ore ed è ormai pomeriggio inoltrato. Per la prima volta prendo in considerazione l’ipotesi di concludere qui la tappa. Troviamo un bar, facciamo fuori in un sorso tre estathe e chiediamo alla signora dietro il bancone di riempirci qualche bottiglia con l’acqua del rubinetto. Al contrario del barista del giorno prima, accetta molto volentieri e infila anche diversi cubetti di ghiaccio. Una benedizione. Il sole inizia a tramontare, non fa più così caldo. Un po’ di forze sono state ripristinate e siamo a metà tappa. Decidiamo di proseguire: se non arriviamo a Madonna dei Fornelli, dobbiamo almeno tentare di raggiungere Le Croci.

Iniziamo a risalire il monte. Il tramonto colora i campi e crea un’atmosfera che sarebbe splendida, se non fossimo troppo stanchi e preoccupati per osservarla. Ora è Izzo ad avere un momento di sconforto ma, salendo, individuiamo in lontananza quello che ci sembra un ripetitore sulla cima di un monte. Quello, secondo il libro, dovrebbe essere il punto da cui inizia una lenta discesa verso le Croci. Ci facciamo forza e proseguiamo.

Ben presto scopriamo con orrore che il ripetitore indicato da Wu Ming 2 si trova molto più in là. Non resta che camminare e camminare. Attraversiamo uno splendido castagneto proprio mentre il sole scompare dietro i profili delle montagne e finalmente raggiungiamo il maledetto ripetitore. Da qui, un’ampia strada sassosa dovrebbe portare – non riusciamo più a calcolare in quanto tempo - verso le Croci.
È quasi buio quando un’utilitaria sale dalla stradina. Io e Piccio la fermiamo per chiedere indicazioni. A bordo, un ragazzo e una ragazza che forse stavano cercando un posto romantico e isolato dove NON incontrare scocciatori come noi.
“Quanto manca alle Croci?” chiedo. “C’è un agriturismo? Qualcosa?” chiedo. “Siamo distrutti” dico, anche se non penso ci fosse bisogno di un sottotitolo per capirlo.
La ragazza sorride e ci dice che Le Croci è proprio qui, a meno di cinquecento metri, che purtroppo l’agriturismo è chiuso, ma che sua nonna, che abita proprio lì, ci avrebbe senza problemi lasciato accampare. “Ditele che vi manda Giulia” aggiunge mentre se ne vanno.

Non facciamo in tempo ad arrivare, che sua nonna è già uscita di casa e ci viene incontro (evidentemente Giulia ha fatto ancora di più: l’ha avvertita per telefono. Grazie infinite, Giulia!). “Ragazzi”, ci dice la signora “sedetevi qui fuori che vi porto da bere, poi vi dico dove vi potete accampare per stare tranquilli”. A noi sembra già un miracolo così, ma non è finita.
La signora insiste per metterci a sedere su un tavolo nel suo giardino. Materializza bottiglie di acqua e di birra fresche e senza aggiungere molto, ci porta gli avanzi di una grigliata di carne: costine, spiedini, salsiccia. Persino filetto di cervo. Insistiamo per pagare, ma lei non solo rifiuta: rincara la dose con fette di melone. 
Infine ci accompagna su un prato poco distante, dove vedo la mia prima stella cadente del Viaggio. Ci prepariamo in fretta per dormire e continuiamo a ringraziare Giulia e sua nonna anche nel silenzio dei nostri sacchi a pelo.

Non mi stupirei se domattina scoprissi che né Giulia, né sua nonna esistono per davvero, ma che in realtà siamo stati soccorsi dagli Spiriti del Viaggio e del Cammino. 

giovedì 9 agosto 2012

ERRARE PER LA VIA DEGLI DEI | Capitolo 2, dove si prova a rubare l’acqua ai defunti (ma non ci si riesce nemmeno)

Si dice che sia il porticato più lungo al mondo: 666 archi per più di 3 chilometri e mezzo, di cui oltre due in salita. È la strada che dal centro di Bologna porta fino al Santuario di San Luca, sul Colle della Guardia. Teoricamente è da lì che ha inizio la Via degli Dei. Solo che noi umani viviamo in una dimensione pratica, quindi ci tocca affrontare una discreta camminata anche solo per raggiungere il punto zero. Arrivati a San Luca, ci ritroviamo quasi senza rendercene conto davanti a una specie di uscita d’emergenza della città: un cartello verde proprio sul ciglio della strada, a cui manca solo il maniglione antipanico. Entri e ti ritrovi catapultato fuori da Bologna, fuori dall’asfalto e dalle macchine, in un sentiero che, attraverso un parco, arriva fino alle rive del Reno

Dopo diversi chilometri infuocati tra polvere e pietre roventi, e parecchi “Che vita schifosa” di Fillo (è un po’ il suo modo di dire per “Non è poi così divertente”), arriviamo in un punto che ci sembra buono per pranzare. Riusciamo persino a bagnarci i piedi nel fiume. Ma in realtà siamo solo all’inizio. 

Ignari di quello che ci aspetta, ci concediamo persino la deviazione indicata da Wu Ming 2 per dare un’occhiata a un ponticello in ferroe legno, il “Golden gate in miniatura”, e ritrovarci ben presto senza un goccio d’acqua. Il miraggio è quello di un piccolo cimitero isolato: lì, dice Fillo, sicuramente ci sarà un rubinetto per innaffiare i fiori. Izzo, che ha finito anche l’ultimo goccio della sua borraccia anni ottanta, sembra entusiasta di una sosta tra le tombe. Io e Piccio non abbiamo nulla in contrario: d’altra parte l’acqua serve di sicuro più a noi che ai defunti. Niente da fare, è il primo cimitero della storia a non avere nulla che nemmeno somigli a un rubinetto o a una fontanella. Abbandonate in un angolo, alcune bottiglie di plastica mezze piene, a dimostrazione del fatto che le persone portano l’acqua da casa. Per un attimo mi balena un’idea, e sono certo sia condivisa. Ma una signora, materializzatasi da chissà dove con la sua bottiglia in mano, ci indica una locanda che dovrebbe essere aperta, poco più in là (ma non ci chiede se desideriamo un sorso).

Proseguiamo. Locanda chiusa. In compenso vediamo due aironi. Uno, lontano, enorme e bianchissimo, forse in realtà è addirittura una cicogna. In ogni caso non placa la sete. Si prosegue per diversi chilometri ancora, su una strada asfaltata che a dire il vero non è piacevolissimo percorrere a piedi. “Che vita schifosa”, mi sento pronunciare.

Parecchie curve più in là il sentiero riprende e s’inerpica all’interno di un bosco. Prima d’infilarci tra gli alberi, io e Fillo tentiamo una mossa disperata: proseguire sull’asfalto ancora un po’, fin verso le case, in cerca di acqua. Arriviamo alla periferia di SassoMarconi. Primo bar chiuso. Poco oltre, un altro bar. Aperto. No, chiuso. No aspetta forse è aperto.

"È l’ultimo giorno prima delle ferie", ci dice il proprietario mentre mandiamo giù due birre ghiacciate. Ci facciamo riempire qualche bottiglia con l’acqua del rubinetto e mentre paghiamo le birre prova addirittura a buttarci lì un “Eh, l’acqua sembra gratis, ma sapeste che bollette mi arrivano”. Torniamo vincitori, con diversi litri d’acqua bevibile tra le mani. Gratis.
Proseguiamo lungo il sentiero e saliamo mentre il sole comincia la sua parabola discendente. È forse il momento più bello della giornata, una luce splendida su un paesaggio meraviglioso, con San Luca microscopico e sbiadito dalla foschia a ricordarci dove eravamo solo qualche ora prima.

Ma l’idillio finisce in breve, un viandante ci dice che a Badolo – meta della nostra giornata – mancano ancora tre ore. “Impossibile” dice Piccio e le ore diventano subito due, ma solo se si tiene un passo davvero veloce. Ci sforziamo di farlo, ci perdiamo un paio di volte, saliamo, scendiamo, dubitiamo. Oramai fa quasi buio quando troviamo il sentiero giusto. È la salita più ripida della giornata e siamo morti che camminano. Zombie, direbbe Izzo. Ma dobbiamo salire. Non so dove trovo le forze per farcela, ma le trovo. Non so dove Fillo trovi le forze per caricarsi anche lo zaino di Izzo e salire fino in cima, ma le trova. È notte, siamo in un posto che sembra tranquillo e siamo distrutti. Decidiamo che la nostra tappa, ovunque sia l’Osteria indicata da WuMing 2 come meta finale, si conclude qui.

Ma Fillo non vuole darsi per vinto. “Non è mia abitudine mandare giù acqua quando ceno” dice all'improvviso e, insieme a Piccio, trova l'energia per raggiungere - torce in mano - l’Osteria. Tornano mezzora dopo, con quattro bottiglie d’acqua fresca. Il sentiero finisce tra quattrocento metri, ci assicurano. In un modo o nell’altro siamo in pari con la tappa. Ci prepariamo per la notte, con il cielo stellato sopra di noi e la carne Simmenthal dentro di noi; e dormiamo profondamente, come si può dormire profondamente in un sacco a pelo, con la schiena spaccata dallo zaino e separata solo da 2 centimetri dal terreno.  

ERRARE PER LA VIA DEGLI DEI | Capitolo 1, dove si comincia dall'inizio



Sono le sette e un quarto. Fillo ci aspetta nel parcheggio, come ci aveva detto al telefono un paio di giorni prima. Non avrei scommesso che si sarebbe davvero fatto trovare. Il suo zaino è una carcassa tenuta insieme solo da nodi, cicatrici, moschettoni e forza di volontà. È come se tutti i chilometri macinati tra viaggi e avventure gli si fossero insinuati tra le fibre, intaccando i tessuti e corrompendo le cuciture, sfibrandolo dall’interno come un’oscura malattia esotica. Legato dietro al collo, un cappello di paglia dai bordi mangiucchiati.  Sembra un pirata di terra, Fillo, con la sua aria da reduce e la sua gamba malconcia. Ti aspetteresti di vedergli piombare sulla spalla un pappagallo, e non sbaglieresti di molto, perché Fillo ha davvero un pappagallo come animale domestico, che di sera gli si accuccia sulla pancia proprio come farebbe un gattino affettuoso.
- Allora siam pronti? – dice mentre sale in macchina – ho buttato dentro stamattina un po’ di cose alla veloce, direi di avere tutto. A che ora parte il treno?

Io e Izzo ci prepariamo da settimane per questo viaggio. L’idea mi è venuta leggendo un libro e gliene ho parlato. Abbiamo iniziato a immaginarlo, a pianificarlo, a costruirlo. Abbiamo persino fatto la nostra brava lista della spesa, eliminando con un rigo di penna ogni voce che trasferivamo dagli scaffali ai nostri zaini (pure quelli, a dire al vero, inclusi nella lista degli acquisti). Torce? Prese. Mantella per la pioggia? Ce l’ho. Carne in scatola? Tonno? Tenda? Scarpe? Cerotti per le vesciche? Crema protettiva?
Izzo ha la testa appoggiata al finestrino della macchina. L’ho conosciuto quando sono tornato a vivere in Emilia. È un programmatore informatico che ascolta heavy metal, ha letto tutto Lovecraft, è un’enciclopedia vivente sugli zombie e ha un talento spiccato per le materie artistiche. Come riesca a far convivere questi campi, per me resterà sempre un mistero. Immagino occorra tanta energia quanta ne serve per tenere insieme lo zaino di Fillo. In un film scritto da uno sceneggiatore americano, Izzo sarebbe il personaggio che dietro agli occhiali da vista nasconde un'anima tenebrosa, e che da un momento all’altro può impazzire e farci fuori tutti. Per fortuna non siamo in un film, e il suo cappello da avventuriero made in Quechua (che mi vanto di avergli sconsigliato) è il dettaglio fuori posto che ce lo conferma.

Siamo in Stazione. Salutiamo la mia ragazza e andiamo verso le macchinette dei biglietti, giusto in tempo per imbatterci in una bella donna, bionda e abbronzata, che si avvicina a un senza tetto gettato in un angolo, con solo un trolley come casa. Lo guarda accennando al suo appartamento con ruote e maniglia e gli dice «Beh, ci stiamo preparando per una vacanza?» per poi sparire tacchettando senza nemmeno osservare il suo sorriso malinconico. Non so cosa volesse esattamente dirci il Viaggio facendoci assistere a questa scena. Di certo ci viene una gran voglia di andarcene via subito.

In treno ci aspetta Piccio, partito da Reggio Emilia.  Fillo e Piccio si stringono la mano, non si erano mai visti. In quanto a me, Izzo me lo aveva presentato qualche sera prima, davanti a un hamburger più grande della mia faccia. In quello stesso film, scritto da quello stesso sceneggiatore, Piccio sarebbe la nemesi di Fillo: combattono la stessa guerra, si affidano alle stesse tecniche, conoscono gli stessi trucchi, ma lottano per due eserciti opposti. Dove Fillo è improvvisazione e intuito, Piccio è meticolosità e precisione. Ha percorso chilometri in America, in Madagascar, in Irlanda e sulle nostre Alpi, e ha scelto da tempo il suo schieramento: l’organizzazione assoluta. È lui che ci ha suggerito quale tipo di zaino preferire, quali scarpe scegliere, quali elementi non dimenticare mai e quali invece lasciare a casa per evitare che lo zaino pesasse troppo. Ci ha persino accuditi in un giorno di spesa.

Scendiamo a Bologna. Da qui in poi, fino a Firenze, i soli mezzi di trasporto saranno i nostri piedi.