sabato 11 agosto 2012

ERRARE PER LA VIA DEGLI DEI | Capitolo 5, dove si assalta un castello e non si riconosce Katia


Mi sveglio prima dell’alba, con lo stomaco e l’esofago che navigano nell’acido. Mi vuoto giù per la gola un litro di acqua, ma non serve a molto. Sapevo che la salsiccia e l’alcol della cena avrebbero lasciato il segno. Mi alzo e constato che, perlomeno, camminare diverse ore in meno del solito e dormire su un materasso hanno fatto bene a schiena e gambe. Inizio a sistemare lo zaino mentre si svegliano tutti. Facciamo colazione e nel frattempo apre anche la Jolanda. “Di che stanza sono?” mi chiede il proprietario mentre gli riconsegno le chiavi della Roulotte-Rulot. “Siamo i ragazzi di ieri, quelli del Cammino, quelli della Roulotte” cerco di spiegare. In risposta ottengo un mezzo sorriso con molti sottintesi: evidentemente la grappa e la serata di ieri non hanno avuto conseguenze solo su di me.

Partiamo col fresco, sapendo che ci toccherà la tappa più lunga sinora: 27 chilometri di monti per arrivare sino a San Piero a Sieve e da lì salire ancora su fino al Castello di Trebbio, per accamparci per la notte. Salutiamo i nostri amici, che stanno finendo la colazione. L’idea è di evitare la prima cima – il Monte Gazzaro – per preservare le forze fino alla fine della giornata. Ma quando ci troviamo nei pressi non riusciamo a tirarci indietro. In fondo siamo qui per camminare e barattare una passeggiata tra i boschi per qualche chilometro di asfalto sarebbe un po’ tradire il Cammino e noi stessi. Così ci infiliamo sul sentiero che s’insinua dentro agli alberi, fin al cuore segreto del bosco. L’umidità portata dalla pioggia del giorno precedente ammanta i tronchi e i rami di una nebbia surreale, e nonostante il mal di stomaco riesco a godermi una camminata semplicemente meravigliosa. 

L’obiettivo è arrivare a Sant’Agata per pranzo, anche se sappiamo che i chilometri da macinare sono parecchi. Probabilmente la tappa striminzita di ieri ha preservato le forze di tutti: nonostante gli acciacchi, le vesciche e l’acido che mi bolle ancora dentro, procediamo rapidi e con poche soste. 

Per l’una siamo a Sant’Agata e quasi non riusciamo a crederci. Bellissima - immagino che le guide la definirebbero "caratteristica" - con le sue casette in sasso, la Pieve, i vialetti fioriti; ma probabilmente progettata da una lucertola o da un urbanista rettiliano a sangue freddo: in tutto il paese non esiste un centimetro quadrato di ombra. Immagino che sia un problema anche per gli abitanti del luogo, tant'è che solo un colpo di sole può spiegarmi come a un passante, vedendoci, sia venuto in mente di chiedere a Izzo se desiderasse un vinile di Elvis. Eppure lo ha fatto. Sul serio. Un vinile. Di Elvis. Del resto, tra le migliaia di leggende che si raccontano su di lui, mi pare ci sia anche chi sostiene che Elvis Presley fosse un rettiliano. Il cerchio si chiuderebbe.

In una piazza riusciamo a individuare 4 panchine vagamente riparate. Su una di esse, una coppia di professionisti del trekking: abbigliamento tecnico, bastoncini e gambe magre e nervose.  Scambiamo un paio di chiacchiere di cortesia: anche loro stanno percorrendo al Via degli Dei, ma sono partiti da Sasso Marconi. Poco dopo se ne vanno, lasciandoci il lusso di una panchina a testa su cui pranzare e appisolarci un poco, con il cappello calato sugli occhi.

Veniamo svegliati garbatamente da un ragazzo in divisa verde che si sta occupando della raccolta differenziata. “Sono arrivati in paese dei ragazzi che vi cercano” ci dice proprio mentre si fanno vivi Elena e i suoi due compagni di viaggio. Anche loro hanno scelto Sant’Agata come sosta per il pranzo, ma i nostri cammini continuano a incrociarsi senza mai sovrapporsi del tutto. Sappiamo per istinto quali informazioni condividere e quali tenere riservate, quali domande fare e quali tacere, mantenendo le distanze in un equilibrio complesso come fanno i gatti nel mio quartiere.  

Di lì a poco ripartiamo, soli, sfidando il caldo torrido del primo pomeriggio. Dopo diversi chilometri, molti dei quali d’asfalto, arriviamo sino a San Piero a Sieve, passando per una chiesetta che risale al 1300 (inizialmente, leggendo la guida, avevo frainteso: avevo capito che risalisse a 1300 metri di altitudine, e mi era venuto un mancamento) e una riserva di caccia con un nome che non dimenticheremo facilmente: Schifanoia
Viene facile il parallelismo con il "Che vita schifosa" del vecchio Fillo.


Rispetto ai paesini incontrati sinora, San Piero a Sieve ci sembra una metropoli, con addirittura un locale dove fare l’aperitivo. Prima di risalire sino al Castello di Trebbio (ci aspetta una salita che non perdona) ci concediamo una birra. Poco dopo appaiono anche i nostri amici. Questa volta risaliamo insieme, è inevitabile. Ci raccontano di aver incrociato la stessa coppia che avevamo visto a Sant’Agata e mentre proviamo a rimettere insieme i pezzi, una certezza comincia a insinuarsi nelle nostre menti: quella sulla panchina era Katia! Ma è ovvio! Come abbiamo fatto a non pensarci? Katia, oggi ti ho persino parlato ma non avevo capito fossi tu. Oramai ti abbiamo raggiunta!

Maledico più volte i tre chili di tenda che mi sto portando dietro, che non ho ancora usato e che, visto il tempo, di certo non userò nemmeno questa sera. Arrivati in cima Fillo individua un prato che fa al caso nostro, proprio vicino a una vecchia fontana con una grande vasca.
Ceniamo (Tonno + Mais + Salamino per me. Cosa te ne pare Gordon Ramsay?), riusciamo più o meno a lavarci e a rattoppare i piedi con i cerotti anti-vesciche. Ci sdraiamo a muso in su sotto un cielo che sembra incredibilmente vicino.
Siamo ai piedi di un castello che domina tutta la valle, la luna rischiara i profili soffici dei colli toscani punteggiati qui e là da poche, rade luci che non inquinano la notte. Vediamo un mucchio di stelle cadenti e mentre ognuno di noi desidera in silenzio, dal sacco a pelo di Fillo sentiamo pronunciare: “Desidero di essere un Faraone! Così domani mi sveglio e tutti mi portano lo zaino, il sacco a pelo e tutto quanto!”  Nel frattempo ho trovato finalmente una funzione alla tenda: è un ottimo cuscino, né troppo duro né troppo morbido. Peccato solo per il peso.