lunedì 13 agosto 2012

ERRARE PER LA VIA DEGLI DEI | Capitolo settimo, dove s’incontra l’uomo tricheco e arriva il momento di fare dei conti


La voglia è di buttarsi giù per la collina, correndo, ruzzolando, urlando come pellirossa, rotolando come rotoballe, gettando gli zaini dove capita e lasciando libere le gambe e i piedi di mulinare e annaspare e inciamparsi per i campi senza ragione. Perché Firenze è proprio lì, a due passi, a un passo, sembra di poterla toccare, sembra di poter sbriciolare in testa ai turisti mangiando un biscotto, sembra un sacco di cose ma, purtroppo, sembra soltanto.

La verità è che ci sono molti chilometri ancora e un ultimo monte da assaltare, solo per arrivare a Fiesole. E poi, ancora tanta, tanta strada. Insieme ai nostri quasi amici, arriviamo fino a un boschetto indicato sia dal nostro libro, sia dalle loro cartine come Vetta Le Croci. I nostri amici decidono che è un buon posto per pranzare, noi preferiamo proseguire. Secondo le informazioni che mettiamo insieme dovrebbero esserci non troppo distanti un laghetto e forse un bar o qualcosa del genere. Cominciamo a scendere sino a incrociare di nuovo una strada statale, al di là della quale si trova in effetti il laghetto che speravamo di incontrare. Peccato sia recintato. Non resta che il bar.

Firenze: 10 chilometri. Così indica il cartello blu, poco distante dal bar ristorante. Viene quasi da piangere, per un misto di esaltazione e frustrazione. Se proseguissimo sulla statale, sotto il sole che trasforma l’asfalto in un fiume di lava e il traffico che sostituisce l’ossigeno con piombo e anidride carbonica, saremmo quasi alla meta. Prendiamo in considerazione l’ipotesi, la soppesiamo tra una sorsata di chinotto e un morso al panino con pecorino e finocchiona, ma no, decidiamo che non è la nostra via. C’è un ultimo monte che ci sta aspettando e noi non lo tradiremo.

Mentre stiamo per ripartire arrivano anche i nostri colleghi di Cammino, informandoci che  mentre pranzavano a Vetta le Croci, sono passati Katia e il marito. In fondo, in un modo o nell’altro, abbiamo mantenuto il nostro proposito: raggiungere e superare Katia. Mentre i piedi sono occupati a percorrere sentieri, anche i nostri cervelli vagano seguendo strade immateriali. Per me è difficile fare in modo che le due vie coincidano: quasi mai il mio cervello è completamente presente mentre mi affatico su un sentiero. È troppo occupato a rimuginare il passato, a elaborare concetti, a formulare tesi e a sfilacciarle in antitesi. E per quanto l’obiettivo di superare Katia fosse superfluo, perlomeno mi aiutava a tenere il cervello inchiodato lì, sul Cammino, dentro le ginocchia, nei tendini e nei muscoli e nelle ossa e nelle piante dei piedi, dentro le scarpe, fin sotto alle vesciche. E adesso che anche questa meta è stata raggiunta, la tensione cala un altro po’, il cervello si rilassa e si sente autorizzato a vagare di nuovo per i fatti suoi, pensando al futuro prossimo, a Firenze, al rientro in treno, alla doccia e al letto che mi stanno attendendo. È normale, ma anche pericoloso: c’è ancora troppa strada per sentirsi arrivati.

Ripartiamo sotto il sole incandescente delle tre, verso Poggio Pratone: 200 metri di dislivello per una salita ripida, lunga e subdola. È un continuo saliscendi e ogni volta che pensi di essere arrivato in cima, dietro gli alberi c’è sempre un altro strappo che ti aspetta. Io e Fillo arriviamo per primi, poco dopo spuntano Piccio e Izzo, seguiti dai nostri amici. Ora il problema è decidere come raggiungere Firenze. Wu Ming 2 suggerisce diverse ipotesi, così come la guida dei nostri amici. La più breve consiste nell’arrivare sino a Fiesole e da lì procedere per la strada vecchia fino a Firenze (circa altri 8 chilometri) calpestando però un sacco di asfalto. Ed è qui che, come nel peggiore dei B-Movie, scritto probabilmente da quello stesso sceneggiatore americano che sembra voler infilare il suo zampino sin dall’inizio della nostra avventura, accade quello che verrebbe definito “colpo di scena”. Dal nulla sbuca un anziano vestito di bianco con un sorriso da tricheco. “Faccio questa strada tutti i giorni per abbassare la glicemia – ci dice – da qui a Fiesole se si scende di buon passo si arriva in un’ora, un’ora e mezza al massimo. Poi per Firenze la strada vecchia non è così male”. Mentre i nostri amici riflettono sul da farsi, noi decidiamo di affidarci allo sceneggiatore del nostro destino e cominciamo a scendere, seguiti e supervisionati dall’uomo tricheco che, ben presto si affianca a noi accompagnandoci lungo la strada. Tutto sembra procedere, ma la situazione si complica.

Izzo, che aveva già dato qualche segno di cedimento, si siede a terra. Non ce la fa più, dice di essersi sentito svenire. Cerchiamo di aiutarlo con acqua fresca e sali minerali ma nel frattempo gli si addormenta il labbro superiore e non riesce più ad articolare le parole in modo chiaro. Tutti sorridiamo perché gli effetti sono buffi, ma in realtà siamo piuttosto preoccupati. Di strada ce n’è parecchia e non è la prima volta, durante il viaggio, che Izzo vive momenti come questo. È il meno allenato di tutti ed è già un eroe ad avercela fatta fino a qui. Nel frattempo ci raggiungono anche i nostri amici, con una provvidenziale barretta energetica. Ringrazio l’anziano, invitandolo a proseguire: noi ce la caveremo. Ma il signore non molla, insistendo per tutto il tempo perché Izzo si tiri su e continui a camminare: è il solo modo per riprendersi, dice, ma in realtà è palese che abbia fretta di arrivare a Fiesole, dove abita. “Non si preoccupi – insisto – se ha fretta vada pure, noi preferiamo aspettare che Izzo si riprenda”. La situazione si fa imbarazzante: l’anziano si ostina a esortare Izzo ad alzarsi e a riprendere a camminare.

Infine, Izzo ce la fa. Il labbro è ok, il suo colore torna passabile e si rimette in piedi. Salutiamo i nostri amici: Elena si fermerà a Fiesole, a casa dei suoi genitori, mentre gli altri due vogliono ancora pensare al da farsi. Abbassando il ritmo della camminata, arriviamo sino a Fiesole, scortati dal misterioso uomo tricheco che non vuole saperne di mollarci. Infine, infilandoci in un bar, riusciamo a staccarci da lui, ringraziandolo e salutandolo sbrigativamente. Davanti a un the freddo Izzo sembra riacquistare un po’ di forze.

È il momento di prendere una decisione difficile: riusciremo ad arrivare a Firenze a piedi? E a mettere qualcosa sotto i denti prima di prendere l’ultimo treno per Modena? Controlliamo gli orari sul telefono e facciamo un rapido calcolo. È praticamente impossibile, se non correndo come pazzi, e non è certo il caso. Non ci resta che optare per la soluzione di cui nessuno voleva parlare: Piccio materializza 4 biglietti per l’autobus ed eccoci, con i musi lunghi, a sbirciare dai finestrini la strada che avremmo dovuto percorrere a piedi. In fondo, ci giustifichiamo, sarebbero stati otto inutili chilometri d’asfalto e macchine.





Il resto si racconta in breve: piombiamo – sporchi, sudati e puzzolenti – in un ristorante per affogare i nostri sensi di colpa nei succhi di una grossa Fiorentina al sangue. E poi via, veloci verso la stazione, per l’ultimo treno disponibile.  Mentre il Frecciargento – come un lombrico supersonico – s’infila in 38 minuti nel ventre dei monti che i nostri piedi hanno accarezzato in 5 giorni, mi chiedo quale sarebbe la morale di questa avventura, secondo lo sceneggiatore americano – perché di certo non avrebbe resistito a infilarne una, probabilmente mettendola in bocca al più saggio tra i protagonisti o, meglio ancora, inserendola in un dialogo apparentemente casuale tra due personaggi secondari.

Avrebbe forse a che fare con il concetto della velocità, oppure con la differenza tra viaggiare con il corpo e viaggiare sul web. Rimugino sul bus che abbiamo preso, ma non mi sento di aver tradito il Cammino: era senza dubbio la cosa più ragionevole da fare. Ripenso a questo treno e non mi sento un miscredente perché apprezzo il fatto che grazie a lui sarò presto a casa. Ripenso all’idea di compiere qualcosa insieme, di conoscersi per davvero, di affrontare un’impresa in gruppo e portarla a termine, e trovo più verità in tutto questo. “È stato bello raga” dice Fillo. E poi il treno arriva a destinazione e non c’è più molto da pensare.



Musica epica ma malinconica. Titoli di coda.