Si dice che sia il porticato più lungo al mondo: 666 archi
per più di 3 chilometri e mezzo, di cui oltre due in salita. È la strada
che dal centro di Bologna porta fino al Santuario di San Luca, sul Colle della
Guardia. Teoricamente è da lì che ha inizio la Via degli Dei. Solo che noi umani
viviamo in una dimensione pratica, quindi ci tocca affrontare una discreta
camminata anche solo per raggiungere il punto zero. Arrivati a San Luca, ci
ritroviamo quasi senza rendercene conto davanti a una specie di uscita d’emergenza
della città: un cartello verde proprio sul ciglio della strada, a cui manca
solo il maniglione antipanico. Entri e ti ritrovi catapultato fuori da Bologna,
fuori dall’asfalto e dalle macchine, in un sentiero che, attraverso un parco,
arriva fino alle rive del Reno.
Dopo diversi chilometri infuocati tra polvere e pietre
roventi, e parecchi “Che vita schifosa” di Fillo (è un po’ il suo modo di dire
per “Non è poi così divertente”), arriviamo in un punto che ci sembra buono per
pranzare. Riusciamo persino a bagnarci i piedi nel fiume. Ma in realtà siamo
solo all’inizio.
Ignari di quello che ci aspetta, ci concediamo persino la
deviazione indicata da Wu Ming 2 per dare un’occhiata a un ponticello in ferroe legno, il “Golden gate in miniatura”, e ritrovarci ben presto senza un goccio
d’acqua. Il miraggio è quello di un piccolo cimitero isolato: lì, dice Fillo,
sicuramente ci sarà un rubinetto per innaffiare i fiori. Izzo, che ha finito
anche l’ultimo goccio della sua borraccia anni ottanta, sembra entusiasta di
una sosta tra le tombe. Io e Piccio non abbiamo nulla in contrario: d’altra
parte l’acqua serve di sicuro più a noi che ai defunti. Niente da fare, è il
primo cimitero della storia a non avere nulla che nemmeno somigli a un rubinetto o a una fontanella. Abbandonate in un angolo,
alcune bottiglie di plastica mezze piene, a dimostrazione del fatto che le
persone portano l’acqua da casa. Per un attimo mi
balena un’idea, e sono certo sia condivisa. Ma una signora, materializzatasi da chissà
dove con la sua bottiglia in mano, ci indica una locanda che dovrebbe
essere aperta, poco più in là (ma non ci chiede se desideriamo un sorso).

Parecchie curve più in là il sentiero riprende e s’inerpica
all’interno di un bosco. Prima d’infilarci tra gli alberi, io e Fillo tentiamo
una mossa disperata: proseguire sull’asfalto ancora
un po’, fin verso le case, in cerca di acqua. Arriviamo alla periferia di SassoMarconi. Primo bar chiuso. Poco oltre, un altro bar. Aperto. No, chiuso. No
aspetta forse è aperto.
"È l’ultimo giorno prima delle ferie", ci dice il proprietario
mentre mandiamo giù due birre ghiacciate. Ci facciamo riempire qualche
bottiglia con l’acqua del rubinetto e mentre paghiamo le birre prova
addirittura a buttarci lì un “Eh, l’acqua sembra gratis, ma sapeste che
bollette mi arrivano”. Torniamo vincitori, con diversi litri d’acqua bevibile tra le mani. Gratis.
Proseguiamo
lungo il sentiero e saliamo mentre il sole comincia la sua parabola
discendente. È forse il momento più bello della giornata, una luce splendida su
un paesaggio meraviglioso, con San Luca microscopico e sbiadito dalla foschia a
ricordarci dove eravamo solo qualche ora prima.


Ma Fillo non vuole darsi per vinto. “Non è mia abitudine mandare giù acqua quando ceno” dice all'improvviso e, insieme a Piccio, trova l'energia per raggiungere - torce in mano - l’Osteria. Tornano mezzora dopo, con quattro bottiglie d’acqua fresca. Il sentiero finisce tra quattrocento metri, ci assicurano. In un modo o nell’altro siamo in pari con la tappa. Ci prepariamo per la notte, con il cielo stellato sopra di noi e la carne Simmenthal dentro di noi; e dormiamo profondamente, come si può dormire profondamente in un sacco a pelo, con la schiena spaccata dallo zaino e separata solo da 2 centimetri dal terreno.