giovedì 9 agosto 2012

ERRARE PER LA VIA DEGLI DEI | Capitolo 2, dove si prova a rubare l’acqua ai defunti (ma non ci si riesce nemmeno)

Si dice che sia il porticato più lungo al mondo: 666 archi per più di 3 chilometri e mezzo, di cui oltre due in salita. È la strada che dal centro di Bologna porta fino al Santuario di San Luca, sul Colle della Guardia. Teoricamente è da lì che ha inizio la Via degli Dei. Solo che noi umani viviamo in una dimensione pratica, quindi ci tocca affrontare una discreta camminata anche solo per raggiungere il punto zero. Arrivati a San Luca, ci ritroviamo quasi senza rendercene conto davanti a una specie di uscita d’emergenza della città: un cartello verde proprio sul ciglio della strada, a cui manca solo il maniglione antipanico. Entri e ti ritrovi catapultato fuori da Bologna, fuori dall’asfalto e dalle macchine, in un sentiero che, attraverso un parco, arriva fino alle rive del Reno

Dopo diversi chilometri infuocati tra polvere e pietre roventi, e parecchi “Che vita schifosa” di Fillo (è un po’ il suo modo di dire per “Non è poi così divertente”), arriviamo in un punto che ci sembra buono per pranzare. Riusciamo persino a bagnarci i piedi nel fiume. Ma in realtà siamo solo all’inizio. 

Ignari di quello che ci aspetta, ci concediamo persino la deviazione indicata da Wu Ming 2 per dare un’occhiata a un ponticello in ferroe legno, il “Golden gate in miniatura”, e ritrovarci ben presto senza un goccio d’acqua. Il miraggio è quello di un piccolo cimitero isolato: lì, dice Fillo, sicuramente ci sarà un rubinetto per innaffiare i fiori. Izzo, che ha finito anche l’ultimo goccio della sua borraccia anni ottanta, sembra entusiasta di una sosta tra le tombe. Io e Piccio non abbiamo nulla in contrario: d’altra parte l’acqua serve di sicuro più a noi che ai defunti. Niente da fare, è il primo cimitero della storia a non avere nulla che nemmeno somigli a un rubinetto o a una fontanella. Abbandonate in un angolo, alcune bottiglie di plastica mezze piene, a dimostrazione del fatto che le persone portano l’acqua da casa. Per un attimo mi balena un’idea, e sono certo sia condivisa. Ma una signora, materializzatasi da chissà dove con la sua bottiglia in mano, ci indica una locanda che dovrebbe essere aperta, poco più in là (ma non ci chiede se desideriamo un sorso).

Proseguiamo. Locanda chiusa. In compenso vediamo due aironi. Uno, lontano, enorme e bianchissimo, forse in realtà è addirittura una cicogna. In ogni caso non placa la sete. Si prosegue per diversi chilometri ancora, su una strada asfaltata che a dire il vero non è piacevolissimo percorrere a piedi. “Che vita schifosa”, mi sento pronunciare.

Parecchie curve più in là il sentiero riprende e s’inerpica all’interno di un bosco. Prima d’infilarci tra gli alberi, io e Fillo tentiamo una mossa disperata: proseguire sull’asfalto ancora un po’, fin verso le case, in cerca di acqua. Arriviamo alla periferia di SassoMarconi. Primo bar chiuso. Poco oltre, un altro bar. Aperto. No, chiuso. No aspetta forse è aperto.

"È l’ultimo giorno prima delle ferie", ci dice il proprietario mentre mandiamo giù due birre ghiacciate. Ci facciamo riempire qualche bottiglia con l’acqua del rubinetto e mentre paghiamo le birre prova addirittura a buttarci lì un “Eh, l’acqua sembra gratis, ma sapeste che bollette mi arrivano”. Torniamo vincitori, con diversi litri d’acqua bevibile tra le mani. Gratis.
Proseguiamo lungo il sentiero e saliamo mentre il sole comincia la sua parabola discendente. È forse il momento più bello della giornata, una luce splendida su un paesaggio meraviglioso, con San Luca microscopico e sbiadito dalla foschia a ricordarci dove eravamo solo qualche ora prima.

Ma l’idillio finisce in breve, un viandante ci dice che a Badolo – meta della nostra giornata – mancano ancora tre ore. “Impossibile” dice Piccio e le ore diventano subito due, ma solo se si tiene un passo davvero veloce. Ci sforziamo di farlo, ci perdiamo un paio di volte, saliamo, scendiamo, dubitiamo. Oramai fa quasi buio quando troviamo il sentiero giusto. È la salita più ripida della giornata e siamo morti che camminano. Zombie, direbbe Izzo. Ma dobbiamo salire. Non so dove trovo le forze per farcela, ma le trovo. Non so dove Fillo trovi le forze per caricarsi anche lo zaino di Izzo e salire fino in cima, ma le trova. È notte, siamo in un posto che sembra tranquillo e siamo distrutti. Decidiamo che la nostra tappa, ovunque sia l’Osteria indicata da WuMing 2 come meta finale, si conclude qui.

Ma Fillo non vuole darsi per vinto. “Non è mia abitudine mandare giù acqua quando ceno” dice all'improvviso e, insieme a Piccio, trova l'energia per raggiungere - torce in mano - l’Osteria. Tornano mezzora dopo, con quattro bottiglie d’acqua fresca. Il sentiero finisce tra quattrocento metri, ci assicurano. In un modo o nell’altro siamo in pari con la tappa. Ci prepariamo per la notte, con il cielo stellato sopra di noi e la carne Simmenthal dentro di noi; e dormiamo profondamente, come si può dormire profondamente in un sacco a pelo, con la schiena spaccata dallo zaino e separata solo da 2 centimetri dal terreno.